Comunità degli oggetti e comunità del fare

Tratto da “Far da sé n.498 – Settembre 2019″

Autore: Nicla de Carolis

Ridotti al rango non di cittadini ma di consumatori, assistiamo a fenomeni sconcertanti che derivano appunto dall’essere “passivi tubi digerenti di beni”. È raro sentire qualcuno che si ribelli per essere chiamato consumatore, termine davvero sminuente e pur accettato tanto che ci sono le associazioni dei consumatori. Sembra non sia più di moda essere comunità fatte di persone che provano passioni politiche e si identificano con un ideale; o di artisti, architetti che credono nella loro missione di lasciare opere che educhino al bello o “sciocchezzuole” analoghe. I poteri che regolano l’economia e soprattutto la finanza e comandano il mondo di oggi, per crescere e prosperare, hanno bisogno di una società dei consumi globalizzata e pensano alle persone solo come consumatori preoccupandosi di catturare informazioni per conoscerne i gusti e farli consumare di più.

Se “il credo” è il consumo, le persone in cui è insito, quasi sempre, il desiderio di appartenere a un gruppo con cui si condivida qualcosa, hanno dato vita inconsapevolmente al fenomeno delle comunità degli oggetti. Solo per fare qualche esempio basti pensare agli smartphone: c’è la comunità dei sostenitori dell’Iphone di Apple e quella dei Samsung ognuno dei quali mai comprerebbe l’altro. Stesso vale per le automobili: il porschista (il propretario di una costosa tedesca Porsche) guarda con sufficienza il proprietario di un’altrettanto costosa Ferrari e viceversa.

Ma una riflessione parte da un’altra grande comunità degli oggetti, quella dei cosiddetti harleysti, i motociclisti che si contraddistinguono per abbigliamento e accessori particolari e scelgono le rumorose e originali moto americane (da pagina 20 c’è la costruzione di una bellissima moto a dondolo ispirata a una Harley Davidson) anche loro in contrapposizione con la comunità dei bmwisti, quelli che optano per le comode e silenziose tedesche BMW.

Infatti la storia di queste mitiche moto americane inizia da qualcosa di molto vicino a chi fa da sé, altrettanto lontana da quella delle comunità degli oggetti. Nel 1901, a Milwaukee (Stati Uniti, Stato del Wisconsin) due ventenni amici d’infanzia William Silvester Harley e Arthur Davidson, montando su una bicicletta un motore da loro costruito, crearono un prototipo di bici a motore.

Questo mezzo venne realizzato nel garage dell’abitazione di Davidson, che misurava 3 metri per 5 (la foto dell’incredibile laboratorio è qui a fianco) e fu un disastro per le abbondanti perdite d’olio e le forti vibrazioni scaricate sul telaio da bicicletta non sufficientemente robusto. I due amici però, aiutati da Walter Davidson fratello maggiore di Arthur e da Ole Evinrude, pioniere motoristico e futuro inventore del motore fuoribordo per uso nautico, riuscirono a produrre nel 1903 la prima vera Harley Davidson.

Una storia vibrante ed emozionante se si pensa alla passione che questa piccola comunità di giovani, con pochi mezzi, avrà profuso per realizzare qualcosa che ha dato vita a un’industria arrivata fino ai nostri giorni; la passione di chi ama FARE, ben diversa da quella di chi si limita ad acquistare un oggetto, sia pur esclusivo, e si bea, per questo, di appartenere a una comunità.

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